Mosaico: testimonianza di epoche, religioni e culture in Terra Santa
Introduzione
Il mosaico costituisce, grazie alla sua antichissima tradizione, un patrimonio unico dell’arte e della cultura mediterranea. In particolare il Vicino Oriente, culla delle civiltà più antiche e crocevia di storie e popolazioni, conserva oggi la storia di questo patrimonio ricchissimo e complesso. Il mosaico è testimone delle epoche, delle religioni e delle culture che qui si sono incontrate e si incontrano ancora oggi, rappresentando al tempo stesso un medium comune attraverso il quale esse dialogano e hanno dialogato nel corso della storia.
Questa funzione “mediatrice” dell’arte musiva in questa regione, oggi rappresenta anche un’importante opportunità di dialogo interculturale, combattendo stereotipi, promuovendo la cooperazione e la condivisione di valori comuni all’interno di tutta l’area mediterranea. Azioni comuni, infatti, sono state intraprese da artisti e conservatori per preservare e mantenere in vita la tradizione di quest’arte e, talvolta, di renderla un elemento capace di trainare azioni di sviluppo sociale e culturale (citiamo ad esempio il lavoro realizzato negli ultimi anni dal Mosaic Center di Gerico).
Storia del mosaico
La produzione di disegni musivi è una delle forme d’arte più antiche della storia dell’umanità. Nasce come arte essenzialmente legata all’architettura. Composto da elementi lapidei o litoidi di piccole dimensioni stesi su un letto di malta, si integrava con altri elementi strutturali come pareti e pavimenti, formando campiture o motivi decorativi. Lo scopo originario del mosaico era puramente funzionale, ma con l’evoluzione di quest’arte e il progresso delle tecniche, ha acquisito anche una funzione decorativa.
La conoscenza e la pratica di questa forma d’arte sono nate in Mesopotamia, dove la storia del mosaico è emersa più di 3000 anni fa, quando i minuscoli coni di argilla cotta sono stati utilizzati per la prima volta come rivestimento durevole per le pareti delle strutture in mattoni crudi. Le basi di questi coni erano a volte colorate in nero, bianco o rosso, e si otteneva un motivo quando le piccole estremità venivano inserite nell’intonaco di fango umido utilizzato per coprire le pareti. Questa è la prima forma di mosaico che è stata scoperta fino ad oggi.
La civiltà minoico-micenea, nel corso del II millennio a.C., iniziò ad utilizzare una pavimentazione a ciottoli di fiume, per dare una maggiore resistenza al calpestio e per rendere il pavimento stesso impermeabile. Lo stesso tipo di pavimentazione a mosaico, con rappresentazioni figurate, lo ritroviamo in vari centri della Grecia databili tra il V e il IV secolo a.C. La transizione al tessellato, cioè al mosaico di tessere, nel III secolo a.C., è documentata in varie regioni del mondo ellenistico senza la necessità di riconoscere un unico centro come propulsore.
Il mosaico in epoca romana intraprenderà uno sviluppo differente rispetto alla tradizione greca. L’apparato decorativo sarà il più vario: da temi figurativi, mitologici, a motivi geometrico vegetali. Il mosaico rimase un bene di lusso, e quindi impiegato quasi in maniera esclusiva in ville e palazzi gentilizi, fino alla seconda metà del II secolo a.C. quando si diffuse il mosaico bicromo (in bianco e nero) largamente utilizzato nelle terme, negli ambienti di uso pubblico, e persino nelle abitazioni, combinando semplicità e economicità con una vastissima gamma di variazioni possibili.
Dal III secolo d.C. si nota una ripresa del mosaico policromo. I mosaici parietali e su volte, invece, deriverebbero dalla tradizione tutta romana di decorare ninfei e grotte dei giardini delle grandi ville sin dall’età repubblicana fino ad arrivare nel corso dei secoli alle volte delle chiese tardo antiche e bizantine, periodo in cui il mosaico conosce il suo momento di massimo splendore.
Questa antica tecnica del mosaico, consolidata in epoca romana e poi bizantina, insieme ai disegni e ai motivi floreali e geometrici, in Oriente viene assorbita dalla cultura islamica: i primi musulmani infatti conservarono e trasformarono questa forma d’arte – la stessa parola in arabo per indicare il mosaico, fuseefasa, deriva dal greco psifosis.
Nei luoghi sacri dell’Islam il mosaico lo ritroviamo sulle pareti, essendo il pavimento spazio dedicato alla preghiera. Reminiscenze bizantine le incontriamo nei motivi floreali su fondo dorato all’interno della Cupola della Roccia a Gerusalemme e nella moschea di Umayyad a Damasco.
Ma soprattutto saranno i motivi geometrici i veri protagonisti dell’arte islamica. Questa svilupperà disegno e tecnica del mosaico per poi dar vita a nuove forme di tassellatura come lo zellige, le piastrelle girih e le vetrate shakaba, largamente utilizzate in architettura.
Il mosaico sarà anche l’elemento privilegiato dagli artisti e dagli architetti italiani che opereranno in Terra Santa dagli anni ’20, elemento che garantirà una certa continuità artistica e stilistica dei luoghi santi rispetto alla loro storia. Barluzzi, Villani, D’Achiardi sono solo alcuni degli artisti che sceglieranno il mosaico per le decorazioni dei santuari restaurati o ricostruiti ex novo, lasciandoci delle interpretazioni moderne di quest’arte antica e immortale.
Mosaico con Barca, Magdala, I secolo
Questo frammento di mosaico, ora conservato su un pannello, apparteneva a una stanza di piccole dimensioni, completamente rivestita di mosaico, all’interno di un edificio termale situato sulle rive del mare di Galilea. Al momento del ritrovamento, la cornice figurata era collocata al centro dello scomparto, mentre sul bordo era presente l’iscrizione musiva greca “KAI CY” (“Anche tu”), una formula che tradizionalmente mirava a prevenire gli effetti del malocchio.
L’apparato decorativo consiste in una barca, un delfino, una coppa per bere (kantharos), un anello, a cui sono appesi due strigili (strumento in metallo impiegato nell’antichità, alle terme o in palestra, per detergere dal corpo la mistura di olio e polvere usata per pulirsi) e un vaso per unguenti (aryballos), un disco e un paio di manubri per atleti (haltares).
Nel complesso, la scena sembra riferirsi a un ambiente di benessere e prosperità, legato alle varie attività praticate nei bagni, dove l’acqua è costantemente presente: la cura del corpo era accompagnata da lunghe conversazioni abbinate, a volte, ai piaceri del vino e del cibo.
Mosaici con personificazione delle province, II-III secolo
Il frammento di mosaico di tessere policrome in pietra calcarea e marmo, con personificazione della provincia africana, apparteneva in origine al pavimento di una villa romana a Belkis (oggi: Graziantep, Turchia), con un articolato programma decorativo, che comprendeva Poseidone sul carro al centro della scena e diverse personificazioni di altre province (Germania, Mauretania, ecc). L’Africa è rappresentata come una figura femminile con un’aureola, la testa velata e coronata da una corona turrita; nella zona superiore è presente l’iscrizione con il titolo in lettere maiuscole greche, per cui mancano le ultime due: AFRI o Africa.
Mosaici costantiniani nella Basilica della Natività a Betlemme IV secolo
I mosaici pavimentali rinvenuti all’interno della Basilica della Natività di Betlemme sono caratterizzati da tessere policrome (bianco, nero, rosso, ocra e grigio) e nella gran parte da motivi decorativi geometrici.
La navata centrale ospita uno dei lacerti più grandi rinvenuti, dove possiamo osservare una parte centrale con disegno decorativo a listelli intrecciati a formare un motivo circolare e una fascia di contorno costituita da girali di acanto.
Di particolare interesse sono due pannelli molto simili fra loro, suddivisi in sei riquadri da una svastica, dove in quello superiore di centro è possibile leggere una iscrizione in lettere greche: IXΘΥС cioè Iesùs Christòs Theù Hyiòs Sotèr,“Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”.
Nelle navate laterali si possono osservare altri motivi decorativi quali squame di pesce e ancora motivi geometrici e foglie cruciformi.
Secondo gli studi realizzati da Padre Bagatti fra la fine del 1947 e il 1952, questa è la prima pavimentazione realizzata nella Basilica perché si è osservato un contatto diretto degli strati di preparazione dei mosaici con la roccia naturale. Recentemente sono stati sottoposti a interventi di restauro che hanno riportato i mosaici all’antico splendore.
Mosaico con epigrafe in georgiano dal monastero di Bir el-Qutt, VI secolo
Si tratta di un frammento di pavimento a mosaico con tessere nere, bianche e beige, il testo epigrafico in lingua georgiana e caratteri è disposto su cinque righe ed è inserito in una cornice rettangolare composta da due strisce nere di diverso spessore alternate a una striscia beige. Le lettere ben disposte sono realizzate con tessere nere. Le linee sono separate da una striscia a doppio strato di tessere beige.
L’iscrizione georgiana recita: “Con l’aiuto di Cristo e per intercessione di san Teodoro, Dio abbia pietà di Abba Antonino e di Josiah, il mosaicista di questo mosaico, nonché del padre e della madre di Josiah”.
L’epigrafe e altri pavimenti a mosaico con iscrizioni trovate nel monastero di San Teodoro a Bir el-Qutt, rappresentano alcune delle più antiche testimonianze della lingua georgiana in Palestina. Vale la pena ricordare che la zona circostante Betlemme è diventata un centro per il monachesimo di origine iberica a partire dal V secolo d.C.
Mosaici dell’Oratorio, santuario Dominus Flevit, VII secolo
Il mosaico appartenente all’oratorio del Dominus Flevit è costituito prevalentemente da tessere policrome di materiale calcareo. Il campo centrale è tripartito. La zona più ampia è costituita da un intreccio di listelli con cerchi annodati caricati con vari motivi decorativi figurati. Viene utilizzata un’iconografia molto cara al Cristianesimo già dal III e dal IV secolo: parti di pesci, pesci interi, motivi floreali e vegetali o ancora frutti come ad esempio melograno, fichi, anguria, mela, pera o uva a grappolo, richiami alla vita e alla rinascita, simboli della passione di Cristo e della sua Ekklesia (corpo mistico).
Mosaici del Monte Nebo, VI-VII secolo
Due mosaici di particolare interesse provengono dal Monte Nebo, in Giordania.
Qui nel 1932 la Custodia di Terra Santa acquistò l’area delle cime di el-Mukhayyat e Siyagha, dove iniziarono gli scavi l’anno successivo sotto la guida di P. Saller e P. Bagatti dello Studium Biblicum Franciscanum.
Il primitivo santuario di Siyagha risale al IV secolo quando un edificio di epoca precedente venne riadattato dando luogo ad una chiesa. Riferibile al VII secolo è invece la Cappella della Theotocos (Madre di Dio), sala absidata e suddivisa in due ambienti. Qui vi è un mosaico rettangolare con la rappresentazione di due gazzelle vicino a due cespugli fioriti e due tori affrontati ad un edificio. Tale edificio cattura la curiosità perché viene identificato come la raffigurazione del Tempio di Gerusalemme nel quale è visibile l’altare con al di sopra la fiamma e in profondità il ciborio con al di sotto la tavola delle proposizioni. Il tutto è accompagnato dalla citazione iscritta del salmo 50 che recita “Allora immoleranno vittime sopra il tuo altare”.
Mosaici del Monte Nebo, VI-VII secolo
Nel VI e nel VII secolo era molto comune adornare pareti e pavimenti dei luoghi sacri con mosaici (anche detti psifis o psifosis). Di questi oggi rimangono solo i mosaici pavimentali e con loro le iscrizioni in greco, la lingua conosciuta dal clero e usata dalla amministrazione bizantina. Di eccezionale interesse è l’iscrizione in semitico, di una sola parola, presente su un mosaico nella cappella a sud dell’abside nella chiesa di S.Giorgio a Khirbat al-Mukhayyat. L’iscrizione appare accanto al nome di Saola, uno dei benefattori della chiesa. Alcuni studiosi suggeriscono anche che questa iscrizione possa essere aramaico cristo-palestinese che significa “Dio dai riposo e salvezza a Saola” alcuni altri suggeriscono che richiami l’espressione in Arabo “bisalam” e che quindi possa significare “In pace”. Se quest’ultima teoria fosse corretta, avremmo la prima attestata iscrizione in Arabo scritta in un mosaico in Giordania.
Mosaici parietali di epoca crociata della Basilica di Betlemme, XII secolo
Dei mosaici eseguiti in epoca crociata (XII sec.) non rimane molto, vittime dell’erosione e dei vari eventi storici.
Nel muro al di sopra delle colonne della navata centrale è possibile osservare nella parte alta una processioni di Angeli e nella parte bassa le raffigurazioni degli avi di Gesù. La parte di mezzo invece, testimonia i vari Concili ecumenici svoltisi in Oriente dove, ogni chiesa opulentemente raffigurata ne rappresenta uno, con la relativa ordinanza redatta in lingua greca.
Nel transetto possiamo vedere rappresentate le scene della vita di Gesù, fra cui spicca l’ingresso di Gesù in Gerusalemme e la Trasfigurazione, dove si attesta l’utilizzo della lingua latina, a testimonianza di come in quel periodo le due confessioni vivessero in un periodo di tranquilla collaborazione.
Di origine siriaca erano i mosaicisti che si occuparono della realizzazione, dei quali rimangono i nomi nella decorazione (Basilios ed Efrem).
Mosaico Monte Tabor, Villani, 1921
Nel corso dell’ultimo secolo il restauro e la ricostruzione degli antichi santuari da parte degli architetti e degli artisti italiani, primo tra tutti Antonio Barluzzi, prende in considerazione tutta la tradizione storica del mosaico in Terra Santa, interpretando molto spesso, in chiave moderna, l’arte dello “psifosis”.
Il restauro della Basilica della Trasfigurazione, sul Monte Tabor è il primo lavoro di Antonio Barluzzi in Terra Santa. I cartoni preparatori furono disegnati a Roma e poi creati e tradotti in mosaico dall’impresa Monticelli del Vaticano.
L’iconografia segue l’antica tradizione: al Cristo trasfigurato si affiancano il registro celeste dei profeti e il registro terreno degli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo. La composizione, chiara e semplice, si svolge su uno sfondo dorato che manifesta l’epifania della divinità, per suscitare ammirazione e devozione. Lo stile è adeguato al gusto storicistico dell’epoca: si riferisce all’arte bizantina fin nei dettagli delle palme e dei cristogrammi che delimitano il mosaico.
Mosaico volta italiana Gethsemani, D’Achiardi, 1927
Barluzzi dirige i lavori della Basilica dell’Agonia del Getsemani, nota come Basilica di tutti i Popoli, situata sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. L’architetto chiese all’artista Pietro d’Achiardi (1879-1940) di decorare le dodici cupole della navata centrale, la cui struttura si ispirava alla Basilica di San Marco a Venezia. Ogni cupola, rivestita a mosaico, porta una decorazione a stelle su sfondo blu, impreziosita da motivi decorativi e dall’emblema della nazione che ne ha finanziato la decorazione.
La cupola italiana si distingue per la ricchezza e la raffinatezza della sua decorazione. Quattro angeli siedono nei pennacchi della cupola, su fondo blu con volute dorate, sembrano sorreggere la cupola.
La decorazione sintetizza diverse fonti di ispirazione, tra cui i mosaici della volta del Sacello di San Zenone, all’interno della Basilica di Santa Prassede a Roma (uno degli esempi più preziosi dell’arte bizantina a Roma del IX secolo) e la volta paleocristiana del battistero ortodosso di Ravenna (inizio V secolo).
Mosaici Capella Latina S.Sepolcro, 1933
Negli anni Trenta del secolo scorso, Barluzzi ha intrapreso il restauro della Cappella Latina dal Calvario al Santo Sepolcro, appena sopra il Golgota, sul luogo della Crocifissione.
Sulla volta interviene Pietro d’Achiardi che allestisce un decoro dal ricco significato cristiano: la vite e l’acanto sono scelti per la loro leggerezza e vivacità, ma soprattutto per il loro significato allegorico, legato alla Risurrezione e all’Eucaristia. Poiché la volta conteneva ancora un lacerto della decorazione originale a mosaico a croce del XII secolo, decise di conservarlo integrandolo nel nuovo mosaico. Il lacerto, che rappresenta il Cristo pantocratore del XII secolo circondato da una mandorla, e la decorazione di foglie di vite dorate e d’acanto su sfondo blu si armonizzano particolarmente bene. Il programma iconografico costruito intorno al lacerto è chiaro ed è perfettamente integrato con il mosaico originale: mostra la Salvezza resa possibile dal sacrificio di Cristo.
Mosaico facciata Ain Karem, Biagetti, 1937
Il mosaico, eseguito nel 1937 sui cartoni di Biagio Biagetti (1877-1948), accoglie il visitatore dal portico d’ingresso sul quale è stato installato.
La Vergine, dopo l’Annunciazione a Nazareth, cavalca un asino fino a Ain Karem per andare a trovare la cugina Elisabetta incinta. Gli angeli la accompagnano su questo tortuoso e montuoso sentiero, ed Elisabetta la aspetta sulla soglia di casa. Nella parte inferiore, sotto la cornice dorata, una citazione del Vangelo secondo San Luca (I, 39-56) affascina la scena.
Biagetti si ispira stilisticamente ai grandi maestri italiani del Trecento e del Quattrocento, in particolare a Fra Angelico (1395-1455), e soprattutto agli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1305-1306). Tuttavia, ha adattato la sua opera al luogo di esposizione, mostrando la vegetazione locale, che ha portato il mosaico ad essere soprannominato “Madonna del fico d’india” (Madonna con l’opunzia).